VALUTAZIONE DELLO STRESS TERMICO PER LAVORATORI SOTTOPOSTI AD ALTI CARICHI, IN REGIME DI NON APPLICABILITÀ DELLE METODICHE WBGT E PHS

Bologna, 17 ottobre 2018

Convegno Nazionale dBA2018, Agenti fisici e salute nei luoghi di lavoro

Abstract

Il presente lavoro affronta la valutazione dello stress termico di quei lavoratori che indossano abbigliamento protettivo ad alto isolamento rispetto all’ambiente esterno (ad esempio per protezione da agenti batteriologici, chimici, calore, polveri, …) e per i quali non sono applicabili gli standard internazionali a disposizione dell’igienista (WBGT e PHS).
Il Regno Unito ha cercato di porre rimedio a questa lacuna con l’emanazione di uno standard nazionale, il BS 7963:2000 che non ha corrispettivi né ISO, né CEN. Lo standard si intitola “Guide to the assessment of heat strain in workers wearing personal protective equipment”.
A livello internazionale e nazionale rimane tuttavia a disposizione la norma UNI EN ISO 9886:2004, dal titolo “Valutazione degli effetti termici (thermal strain) mediante misurazioni fisiologiche”. Questa propone diversi metodi per l’accertamento, ma solo quello che si basa sulla valutazione della frequenza cardiaca è attuabile senza ricorrere a tecniche invasive per l’addetto.
Infine è disponibile dalla letteratura autorevole, diffusa dalle forze armate statunitensi, emessa a fronte di un’interessante e dettagliata ricerca indirizzata a valutare la temperatura interna del nucleo corporeo a partire dalla lettura continua delle pulsazioni cardiache, con un metodo alternativo e più pratico, rispetto a quello proposto dalla ISO 9886.
In questo lavoro gli scriventi propongono una disamina di tutti questi metodi.

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VALUTAZIONE DELLO STRESS TERMICO PER LAVORATORI SOTTOPOSTI AD ALTI CARICHI, IN REGIME DI NON APPLICABILITÀ DELLE METODICHE WBGT E PHS

Alessandro Merlino, Gianluca Gambino, Daniele Meda, Gabriele Quadrio

CeSNIR, Villasanta (MB)

Indice

1 – INTRODUZIONE

Il presente lavoro affronta la valutazione dello stress termico di quei lavoratori che indossano abbigliamento protettivo ad alto isolamento rispetto all’ambiente esterno (ad esempio per protezione da agenti batteriologici, chimici, calore, polveri, …) e per i quali non sono applicabili gli standard internazionali a disposizione dell’igienista (WBGT e PHS).

Il Regno Unito ha cercato di porre rimedio a questa lacuna con l’emanazione di uno standard nazionale, il BS 7963:2000 che non ha corrispettivi né ISO, né CEN. Lo standard si intitola “Guide to the assessment of heat strain in workers wearing personal protective equipment”.

A livello internazionale e nazionale rimane tuttavia a disposizione la norma UNI EN ISO 9886:2004, dal titolo “Valutazione degli effetti termici (thermal strain) mediante misurazioni fisiologiche”. Questa propone diversi metodi per l’accertamento, ma solo quello che si basa sulla valutazione della frequenza cardiaca è attuabile senza ricorrere a tecniche invasive per l’addetto.

Infine è disponibile dalla letteratura autorevole, diffusa dalle forze armate statunitensi, emessa a fronte di un’interessante e dettagliata ricerca indirizzata a valutare la temperatura interna del nucleo corporeo a partire dalla lettura continua delle pulsazioni cardiache, con un metodo alternativo e più pratico, rispetto a quello proposto dalla ISO 9886.

In questo lavoro gli scriventi propongono una disamina di tutti questi metodi.

2 – INQUADRAMENTO DEL FENOMENO

Le persone esposte al caldo subiscono uno stress termico che può incidere sulla loro salute, comfort e sulle loro prestazioni. Lo stress termico può inoltre condurre alla morte. Quando il tempo meteorologico diventa molto caldo, specialmente se inusitatamente caldo, il numero di decessi può crescere in modo considerevole, soprattutto tra i soggetti più vulnerabili. Si può dire che nel contesto occupazionale l’esposizione al calore sia molto meglio governata che in quello del pubblico generico. A titolo di esempio, si consideri che nell’estate 2003 l’Europa fu colpita da una massiccia ondata di caldo, fenomeno che fu eccezionale sia per la durata che per l’intensità e nella sola città di Parigi morirono 14 000 persone a causa di questo (in Italia i morti arrivarono complessivamente a circa 18 000).
Un altro contesto dove si sono registrate numerose morti tra la popolazione generica è quello delle maratone (se ne corrono circa 500 ogni anno, in tutto il mondo), dove temperature dell’aria di 20 °C possono essere già critiche e 30 °C si devono considerare proibitivi1.
Nel contesto occupazionale è condivisa l’opinione che ci siano 2 lavoratori su 1000 a rischio a causa di questo agente. Un fattore discriminate è l’abitudine al calore; è infatti stato spesso riscontrato come i maggiori problemi interessino coloro che non sono abituati né fisicamente, né psicologicamente ad affrontare il caldo. Un altro elemento chiave è la sottovalutazione del rischio, spesso percepito minore di quello reale, talvolta aggravato da un’eccessiva responsabilizzazione al dovere e/o motivazione allo svolgimento del proprio compito. Si pensi a coloro che fanno parte di gruppi di pronto intervento e che spesso indossano abbigliamento protettivo di tipo CBRNE (Chemical Biological Radiological Nuclear and Explosive) come sanitari, vigili del fuoco, militari.
Si consideri che, come riportato in letteratura, nonostante i numerosi pericoli sul piano antincendio, la principale causa di decessi sul campo, tra i vigili del fuoco negli Stati Uniti è la morte per arresto cardiaco (50% dei decessi totali).
Condizioni di alto rischio possono verificarsi anche nell’industria siderurgica, in quella della panificazione, in quella automobilistica, dell’estrazione del petrolio, a bordo di imbarcazioni e navi.

3 – FISIOLOGIA DELLA RISPOSTA AL CALORE

Nelle condizioni di stress da calore, la temperatura del corpo può crescere. Questo controllo è affidato all’ipotalamo che, attraverso i recettori sensibili ai cambiamenti di temperatura presenti nella cute, nei muscoli, nello stomaco e in altre aree del sistema nervoso centrale, riceve informazioni sui cambiamenti di temperatura nei diversi distretti corporei. Contestualmente è anche monitorato il rapporto tra gli ioni di sodio e di calcio. Quando l’ipotalamo rileva che alcune di queste temperature si trovano sopra i livelli desiderati, determina un aumento del flusso sanguigno nei distretti interessati, attraverso il sistema nervoso simpatico che provvede a dilatare il letto vascolare cutaneo e a incrementare il flusso di sangue alla pelle; se questa prima azione non è sufficiente a contrastare l’innalzamento della temperatura, è attivato anche il meccanismo della sudorazione. Il flusso sanguigno derivato dall’attività cardiaca, viene modulato dal sistema nervoso ed endocrino ai diversi organi, in funzione della loro necessità energetiche.
Durante l’attività fisica avviene un’iniziale vasocostrizione simpatica finalizzata ad inviare il sangue ai muscoli che sono stati attivati; tuttavia, al fine di disperdere calore, il volume di sangue disponibile per le funzioni organiche diminuisce a causa della vasodilatazione cutanea; la gittata sistolica diminuisce e la frequenza cardiaca, di conseguenza, deve aumentare per mantenere costante la gittata.
In questa situazione il sangue non provvede quindi solo all’apporto di ossigeno ai muscoli, ma agisce anche come fluido di raffreddamento. In condizioni di stress termico la frequenza cardiaca aumenta per mantenere la stessa portata cardiaca e i meccanismi di termoregolazione possono prevalere su quelli di ossigenazione dei muscoli (in questo caso si parla di deriva termica del battito cardiaco).
Anche il volume circolatorio efficace diminuisce, man mano che l’acqua viene persa attraverso la sudorazione.
Le ghiandole sudoripare sono stimolate dai nervi simpatici colinergici e secernono il sudore sulla superficie della pelle. Tassi di sudore dell’ordine di 1 litro/ora sono comuni e sono dissipati 675 W di calore per ogni litro evaporato.
Durante la sudorazione sono anche persi circa 4 g/litro di sale (1 g/litro per i soggetti acclimatati). Difficilmente sono però necessarie integrazioni saline, considerato che una normale dieta fornisce 8-14 g di sale al giorno. Con la sudorazione viene perso anche il potassio che sarà anch’esso ripristinato con la normale alimentazione (meglio se arricchita di cibi di origine vegetale).
La risposta fisiologica complessiva per il continuo accumulo di calore è quindi quella di attivare la vasodilatazione per aumentare la temperatura cutanea e la sudorazione per disperdere calore attraverso l’evaporazione dello stesso sudore in aria (l’eventuale gocciolamento di un po’ di sudore è invece inefficace a questo scopo e per di più rappresenta un’importante perdita d’acqua).
Quando l’organismo è esposto al calore elevato in ambiente umido, la temperatura corporea continua ad aumentare nonostante l’abbondante sudorazione e in tali condizioni si può verificare una riduzione della sudorazione per blocco delle ghiandole sudoripare (hidromeyios). La diminuzione della sudorazione procura un ulteriore e rapido aumento della temperatura del nucleo. All’aumentare del surriscaldamento corporeo si possono avere i seguenti effetti sanitari: alterazioni cutanee, edema da calore, collasso cardiocircolatorio (per temperature rettali superiori a 39 °C), colpo di calore (temperature rettali dell’ordine dei 41 °C), alterazioni cerebrali, morte.
In sede NIOSH si ritiene che la temperatura del nucleo corporeo (core temperature), possa arrivare anche sino a 39°C in condizioni controllate. Non è infati scontato che un lavoratore subisca effetti avversi sulla propria salute al raggiungimento di 38°C o anche 39°C di temperatura interna. Tuttavia, tenuto conto dei possibili errori di rilevazione nella valutazione di stress termico, è necessario che il limite adottato comprenda un opportuno margine di sicurezza ed è per questo motivo che viene universalmente assunto pari a 38°C.
Bisogna infine considerare che vi sono importanti fattori individuali, nella vulnerabilità al calore, tra cui: età, genere, grasso corporeo, droghe (alcol incluso).
Di fatto c’è una grande variabilità individuale nei meccanismi di risposta al calore e questi non sono ancora stati pienamente compresi.

4 – GLI EFFETTI DELL’ABBIGLIAMENTO PROTETTIVO (DPI) SULLO STRES TERMICO

Anche se i DPI dovrebbero essere considerati l’ultima risorsa nell’attuazione delle misure di riduzione dei rischi, sono spesso utilizzati come prima in quanto risultano più economici rispetto all’introduzione di misure tecniche da attuarsi sulla sorgente e/o sull’ambiente di lavoro. Ciò è dovuto anche al fatto che si tende a considerare che le prestazioni dei lavoratori siano poco influenzate da un ambiente di lavoro sfavorevole.
Tuttavia l’abbigliamento protettivo ha evidentemente un impatto diretto sulla capacità del corpo di disperdere calore.
Innanzitutto inibisce l’evaporazione dalla pelle, a causa di un microclima umido che si crea tra pelle ed abbigliamento, diminuendo così l’effetto di raffreddamento di questo meccanismo.
Inoltre incide sulla capacità del sistema di termoregolazione di trasferire calore dal nucleo corporeo alla cute; questo trasferimento, attuato dalla circolazione sanguigna, è infatti influenzato dalla differenza di temperatura esistente tra cute e nucleo e se le due convergono, come può avvenire se il lavoratore indossa un abbigliamento protettivo, la quantità di calore trasferibile alla pelle diminuisce. Questo comporta un isolamento termico del soggetto, con conseguente aumento della temperatura del nucleo (affinché il sangue possa cedere calore alla cute, questa dev’essere mantenuta almeno 1 °C più in basso della temperatura del nucleo). Si ha inoltre la conseguenza che al cuore è imposta una più alta frequenza cardiaca, nel tentativo di mantenere inalterata la gittata, mentre il volume di sangue pompato diminuisce ad ogni battito. Al raggiungimento della medesima temperatura da parte di nucleo e pelle, diventa molto probabile il collasso cardiaco e questo si può quindi verificare anche per temperature non altissime (inferiori a 39°C ad esempio). Di qui l’importanza di considerare correttamente gli effetti dell’abbigliamento protettivo nelle valutazioni di stress termico.
L’abbigliamento protettivo, così come eventuali altri DPI (respiratori ad esempio), incide anche sul tasso metabolico, innalzandolo con conseguente aumento del calore interno correlato al metabolismo.
Un elenco degli effetti dei DPI, indossati a protezione dagli agenti fisici, chimici, biologici e termici, sul bilancio termico umano è il seguente:

–      il tasso metabolico può subire un aumento a causa del peso dei DPI o a causa delle limitazioni al movimento imposte al lavoratore da questi stessi dispositivi;
–      gli scambi termici che avvengono con la respirazione per convezione ed evaporazione possono essere influenzati da dispositivi a protezione della respirazione come maschere filtranti o apparati di respirazione;
–      gli scambi termici che avvengono per convezione attraverso la cute sono influenzati dalla porzione di corpo coperta e dal grado di isolamento termico fornito dall’abbigliamento;
–      gli scambi termici che avvengono sempre dalla cute, ma per evaporazione, sono influenzati dai medesimi fattori di cui al punto sopra ed anche dalla permeabilità al vapore degli indumenti. A proposito di questo punto si tenga conto che l’evaporazione del sudore dalla cute è generalmente il più efficace metodo di raffreddamento del corpo.
–      Infine i DPI possono incidere sulle quantità di calore scambiate attraverso la cute per conduzione e irraggiamento.

Tra questi effetti, quelli che maggiormente incidono sullo stress termico sono quello dell’aumento del tasso metabolico e quello della diminuzione del tasso di evaporazione del sudore. Gli altri si possono considerare secondari rispetto a questi due.
Rimaniamo intorno agli effetti dell’abbigliamento sugli scambi di calore tra soggetto e ambiente. Si consideri che queste sono riconducibili a due meccanismi, l’isolamento termico e la resistenza all’evaporazione.
L’isolamento termico dell’abbigliamento, individuato dal parametro Icl, misurato in clo, influenza gli scambi termici che avvengono attraverso la pelle, di tipo non evaporativo, ovvero quelli convettivi, radiativi e conduttivi. Com’è noto, l’isolamento termico complessivo dei capi di abbigliamento indossati dal lavoratore, si può determinare a mezzo dei dati e delle procedure reperibili nella norma tecnica UNI EN ISO 9920:2009 “Ergonomia dell’ambiente termico – Valutazione dell’isolamento termico e della resistenza evaporativa dell’abbigliamento”.
Tuttavia l’abbigliamento incide sugli scambi termici anche attraverso la propria resistenza all’evaporazione. Quando questa è elevata (come nel caso di indumenti impermeabili) accade che l’evaporazione del sudore può avvenire solo nell’aria compresa tra la superficie della pelle e la superficie interna dello strato dell’abbigliamento a più alta resistenza all’evaporazione. Quando il soggetto inizia a sudare, quest’aria si satura di vapore acqueo e l’unico modo di disperdere calore rimane quello per convezione e irraggiamento dalla superficie esterna dell’abbigliamento; la quota di calore così dispersa, è tuttavia di molto inferiore a quella che sarebbe stata ceduta attraverso l’evaporazione del sudore all’esterno.
Un altro fattore che incide in modo importante sugli scambi termici, è il grado di aderenza dell’abbigliamento stesso al corpo. Quando gli indumenti non sono fascianti, l’aria può transitare dall’esterno al loro interno e viceversa, pompata dentro e fuori dagli stessi movimenti del soggetto (si parla di “pumping effect”). La capacità di raffrescamento riconducibile a questo meccanismo varia notevolmente e dipende dalla quantità di aria scambiata e dalle temperature del microclima interno all’abbigliamento e del microclima esterno.
Tranne che nel caso dei metabolismi più leggeri (inferiori a 100 Wm-2) il “pumping effect” può incidere sull’isolamento termico dell’abbigliamento riducendolo di circa il 20% rispetto al suo valore statico (nominale). Di questo è pertanto necessario tenere conto nei casi in cui l’addetto indossi un abbigliamento avvolgente, se non incapsulante o anche solo quando indossi dei DPI che lo comprimono (imbracature, ginocchiere, …).

5 – VALUTAZIONE DELLO STRESS DA CALDO A PARTIRE DALL’AMBIENTE TERMICO

Sono due i metodi definiti a livello internazionale e recepiti anche in Italia per l’accertamento dei rischi connessi con lo stress termico da caldo a partire dalla caratterizzazione dell’ambiente termico.
Ricordiamo che l’ambiente termico è completamente descritto quando sono note le quattro variabili ambientali ta, va, UR e tg e le due variabili riferite al soggetto Icl ed M2.

I due metodi di valutazione sono i seguenti:

  • il metodo basato sull’indice WBGT (Wet Bulb Globe Temperature) e illustrato nella norma tecnica UNI EN ISO 7243:2017;
  • il metodo denominato PHS (Predicted Heat Strain), basato sui descrittori tre (temperatura rettale) e D (quantità di liquidi perduti durante l’esposizione) e illustrato nella norma tecnica UNI EN ISO 7933:2005

In termini gerarchici, il metodo WBGT dev’essere considerato di screening ed alla portata anche di valutatori non esperti; se i livelli di riferimento del metodo WBGT sono superati, dovrebbe essere adottato il metodo PHS con un accertamento condotto da parte di persona esperta.

5.1 – WBGT

WBGT è un indice elaborato su base empirica durante gli anni ’50 dall’esercito americano come parte di un programma applicato per ridurre le vittime dello stress da calore nella Marina degli Stati Uniti. Il metodo è stato elaborato con l’intento che potesse essere facilmente utilizzato in un ambiente industriale, consentendo una diagnosi rapida.

Una conseguenza di questo compromesso tra facilità d’uso e accuratezza, è che il metodo risulta applicabile alla valutazione dell’effetto medio del calore durante il periodo di attività del lavoratore, ma non consente di valutare lo stress derivante da esposizioni al caldo per brevi periodi. Inoltre, nella sua versione originale (rimasta in vigore sino al novembre 2017), non consentiva di stimare l’effetto dell’abbigliamento protettivo o altri DPI.

Pertanto, l’indice WBGT dovrebbe essere utilizzato per valutare se esista o meno il problema, accertando se i valori di riferimento vengono superati. In tal caso, è bene ricorrere a standard più avanzati per fornire una stima più accurata del grado di stress.

Il metodo prevede la misurazione delle seguenti grandezze termoigrometriche:

  • temperatura dell’aria a bulbo umido a ventilazione naturale (tnw);
  • temperatura di globotermometro (tg);
  • temperatura dell’aria (a bulbo secco) solo in caso di irraggiamento solare (ta).

Il risultato è espresso mediante un indicatore che combina le due grandezze di cui sopra (tre in caso di irraggiamento) tramite la seguente somma pesata:

WBGT = 0.7 tnw + 0.3 tg (in assenza di irraggiamento solare)

WBGT = 0.7 tnw + 0.2 tg + 0.1 ta (in presenza di irraggiamento solare)

Come si nota, la maggior importanza è data alla temperatura di bulbo umido e la sua miglior risposta è restituita quando si prendono in considerazione soggetti poco coperti e con indumenti ad alta permeabilità al vapore.

Il principio del metodo si basa sull’assunzione che gli scambi di calore tra questo tipo di strumento e l’ambiente, replichino quelli dell’essere umano e che pertanto l’impatto dello stress termico sulla persona sia direttamente correlabile con le letture della strumentazione. Questo naturalmente è vero solo in parte e dipende dallo specifico contesto (grado di umidità, ventilazione dell’aria, vestizione della persona, permeabilità al vapore dell’abbigliamento, …).

5.2 – PHS

Un approccio alternativo per evitare le limitazioni di cui sopra è quello di calcolare effettivamente lo scambio di calore tra una persona e l’ambiente, utilizzando i sei parametri di base che definiscono le condizioni climatiche e personali: temperatura dell’aria ambiente, temperatura radiante, umidità e velocità dell’aria, abbigliamento e tasso metabolico del soggetto.

Un considerevole vantaggio di questo secondo metodo è quello che consente di ottenere una previsione dello stato di sollecitazione del lavoratore in ogni momento della sua esposizione, consentendo in questo modo all’igienista industriale di valutare la durata dell’esposizione sicura e quella dei periodi di recupero. Per questi scopi è importante che il valore dell’indice in un dato istante tenga conto delle esposizioni passate e dei tempi di risposta delle variabili fisiologiche considerate.

Questo metodo, diventato uno standard in Italia nel 2005 con l’emissione della norma UNI EN ISO 7933:2005 Ergonomia dell’ambiente termico – Determinazione analitica ed interpretazione dello stress termico da calore mediante il calcolo della sollecitazione termica prevedibile, perfezionava e arricchiva un metodo esistente in Italia dal 1999 basato sul calcolo della sudorazione richiesta per mantenere l’equilibrio termico3, migliorandone la procedura di calcolo ed aggiungendo in output la previsione della massima temperatura raggiunta dal nucleo corporeo.

Rispetto al primo modello, lo standard 2005 risulta anche molto più adatto a valutare le esposizioni di breve periodo grazie all’introduzione del calcolo esponenziale per i valori medi della temperatura della cute e del tasso di sudorazione, definite le loro costanti di tempo. Questo consente di tenere conto dell’inerzia che questi parametri fisiologici oppongono alle variazioni repentine. Nella versione precedente, ogni nuovo stato fisiologico era invece raggiunto istantaneamente, cosa di poco conto per esposizioni di lungo periodo, ma che risulta invece inadeguata per valutare esposizioni intermittenti e cicli lavoro-riposo.

Prove comparative tra il metodo PHS e il metodo WBGT confermano il secondo quale metodo esclusivamente di screening, da utilizzare pertanto non più che per stabilire se via sia un problema di stress termico o meno. Il metodo PHS si può considerare invece un metodo di analisi a mezzo del quale l’entità del rischio può essere ben correlata con un indice numerico, sufficientemente affidabile per studiare una riorganizzazione del lavoro che consenta di riportare l’esposizione entro livelli di sicurezza. Questo, naturalmente, se si agisce entro gli intervalli di applicabilità del metodo, che sono riportati in tabella 1.

Tabella 1: Intervalli di validità del metodo PHS (UNI EN ISO 7933:2005)

5.3 – BS 7963:2000

I due metodi illustrati sopra, WBGT e PHS, sono gli unici elaborati a livello internazionale per una valutazione oggettiva dello stress termico da caldo riferita a gruppi di lavoratori. In entrambi i casi si assume che l’abbigliamento sia tale da garantire l’efficacia di tutti i meccanismi di scambio termico tra uomo e ambiente presi in considerazione nel metodo. Si ricorda inoltre che il primo metodo (WBGT) ha valore di screening e non può essere utilizzato nei casi ad alto livello di rischio, mentre il secondo ha valore di approfondimento ma l’intervallo di applicabilità ne limita l’impiego ai casi in cui l’isolamento termico dell’abbigliamento non supera 1 clo (cfr. tabella 1). Entrambi sono infatti studiati per quei lavoratori che svolgono compiti al caldo, ma che non devono utilizzare abbigliamento protettivo.

L’unico standard che affronta il caso di lavoratori esposti ad alti carichi termici e che devono indossare abbigliamenti speciali a protezione di altri tipi di rischio (ad esempio polveri, agenti chimici, agenti microbiologici, taglio e lo stesso irraggiamento di calore) è quello emesso nello Regno Unito, denominato BS 7963:2000 dal titolo “Guide to the assessment of heat strain in workers wearing personal protective equipment”.

Questo standard non definisce un nuovo indice di esposizione, ma propone dei metodi per correggere le procedure definite dai metodi esistenti4(WBGT e PHS) per ottenere una possibile valutazione degli effetti dello stress termico da caldo anche per i lavoratori che devono indossare abbigliamenti protettevi o altri DPI che possono incidere sull’ambiente termico personale.

Come anticipato più sopra, uno degli effetti dei DPI (incluso l’abbigliamento protettivo) sul bilancio termico del soggetto, è quello di aumentare il tasso metabolico che, secondo la BS 7963, dev’essere quindi riconsiderato quando il lavoratore indossa un abbigliamento diverso da quello standard5, correggendolo con i valori forniti alla tabella 3.2 della norma stessa (cfr. Tabella 2 in questo documento).

Tabella 2: Estimated increases in metabolic rate due to wearing PPE

Lo standard britannico propone quindi una metodologia di lavoro per poter utilizzare i due metodi esistenti, WBGT e PHS, anche ai casi di lavoratori che indossano abbigliamento protettivo e per i quali le due metodiche normate a livello internazionale risultano inapplicabili. Illustriamo questa metodologia di seguito, per entrambi i casi (WBGT e PHS) per quanto sia parere degli scriventi che un indice di screening come il WBGT non dovrebbe nemmeno essere preso in considerazione per esaminare casi ad alta criticità.

5.3.1 – Revisione della procedura WBGT secondo BS 7963

Per quel che concerne la metodica WBGT, lo standard britannico indica innanzitutto di determinare il tasso metabolico tenendo in considerazione le correzioni dovute ai DPI e all’abbigliamento protettivo. A questo scopo si deve ricorrere alla tabella 3.2 dello standard e che noi abbiamo riportato come tabella 2 in questo lavoro.

Infine indica di modificare il valore ottenuto dell’indice WBGT, sommandovi dei fattori correttivi che consentono di tenere conto degli effetti dell’abbigliamento protettivo rispetto a quello standard previsto dalla norma. Tali fattori sono proposti nella tabella A.1, riproposizione di un’indicazione di ACGIH del 1990. A questo proposito si deve tenere conto che la revisione 2017 della metodica WBGT ha fatto propria l’idea di correggere l’indice nei casi in cui l’abbigliamento indossato dal lavoratore risulta differente dall’ “ordinario abbigliamento da lavoro”, soprattutto per quel che concerne la permeabilità al vapore. I termini correttivi sono detti CAV (clothing adjustement value). L’indice che se ne ricava è indicato come WBGTeff:

WBGTeff = WBGT + CAV

I possibili valori di CAV sono forniti all’appendice F e li riportiamo anche in questo lavoro alla tabella 3.

Tabella 3: WBGT CAVs for different clothing ensembles, in °C-WBGT (UNI EN ISO 7243:2017, table F.1)

5.3.2 – Revisione della procedura PHS secondo BS 7963

Considerato il maggior dettaglio del metodo PHS rispetto al metodo WBGT, anche gli aggiustamenti apportabili per ottenere risultati più affidabili nel caso di operatori che indossano abbigliamento protettivo, sono più articolati.

  1. Innanzitutto occorre determinare l’impatto dei DPI, abbigliamento incluso, sul tasso metabolico. A questo scopo si deve ricorrere nuovamente alla tabella 3.2 della BS 7963 (tabella che noi abbiamo riportato come tabella 2 in questo lavoro).
  2. Quindi sarà necessario valutare se l’isolamento termico dell’abbigliamento sia effettivamente da correggere per tenere conto degli effetti dinamici. La procedura PHS prevede di applicare questa correzione comunque, calcolando il parametro Icl dyn, individuato dalla variabile Icldyn nel codice Basic del programma di cui all’appendice E della UNI EN ISO 7933:2005. Se l’abbigliamento indossato è attillato o addirittura completamente incapsulante, andrebbe impedita questa correzione imponendo che il parametro Icl dyn assuma lo stesso valore del parametro Icl, ammesso che sia fattibile con i tool software che si hanno a disposizione.
    Nel caso si utilizzi un tool commerciale sarà difficilmente attuabile una correzione del genere. Uno stratagemma molto approssimato potrebbe essere quello di inserire come isolamento termico di base (quindi statico) il valore reale aumentato del 20-30%.
  3. Sempre con riferimento all’abbigliamento, nel caso in cui questo abbia un’alta resistenza all’evaporazione o, al limite, sia impermeabile, andrà tenuto conto che sarà da eliminare o comunque ridurre la quota di calore ceduta dal corpo all’ambiente per evaporazione del sudore. La BS 7963, riferendosi alla UNI EN 12515:1999 che non considerava la permeabilità al vapore degli indumenti, propone di imporre che la temperatura di bulbo umido sia pari alla temperatura di bulbo secco (occorrenza che si avrebbe se l’umidità relativa dell’aria fosse pari al 100% e pertanto nessuna evaporazione fosse possibile). Lo standard PHS include invece in input l’indice di permeabilità al vapore dell’abbigliamento (pari a 0.38 per il così detto “abbigliamento standard”). Questo non può essere posto pari a 0 (caso di abbigliamento impermeabile e completamente incapsulante), dal momento che nei calcoli diventa un divisore, tuttavia si può porre pari a un valore basso o molto basso (0.01 per esempio). Si tenga però conto che la modificazione dell’indice di permeabilità dell’abbigliamento non è un grado di libertà previsto dalla norma perché questa non è applicabile per abbigliamenti speciali e infatti suggerisce di porre quest’indice sempre pari a 0.38. Pertanto, se il tool impiegato non consente di variarlo, si può pensare di agire sulla pressione parziale del vapor d’acqua pa, dato senz’altro presente tra quelli richiesti in input. Per annullare gli effetti della cessione di calore per evaporazione del sudore, basta porre pa pari al valore della pressione di vapor saturo (al quale corrisponde ovviamente un’umidità relativa pari al 100%), calcolabile, per via approssimata, a partire dalla temperatura dell’aria a bulbo secco ta6.
  4. Sempre per rendere conto della limitata capacità del corpo di disperdere calore per evaporazione, la norma suggerisce di imporre una velocità dell’aria non superiore a 0.1 ms-1. In questo modo si riduce anche la quota di calore che sarà ceduta per convezione, considerato che questa quota è anch’essa inferiore a quella che si sarebbe avuta se l’abbigliamento fosse stato permeabile al vapore.

Si deve far osservare che gli esiti ottenuti apportando gli aggiustamenti sopra, non possono che risultare peggiori di quelli che si ottengono con l’applicazione della metodica PHS “pura”. Tale sforzo è quindi inutile se una valutazione PHS ha restituito già esiti negativi, tali da indirizzare verso una valutazione compiuta mediante la misurazione dei parametri fisiologici (per esempio se si ottengono tempi limite dell’ordine dei 30 minuti o inferiori). È invece utile condurre una rivalutazione apportando gli aggiustamenti proposti dalla BS 7963 se l’esame compiuto con il metodo PHS restituisce esiti accettabili ma non di totale sicurezza (per esempio tempi limite dell’ordine dell’ora e/o inferiori alla durata del compito). In questi casi, fermarsi ad una valutazione tramite la procedura standard, può comportare pesanti sottostime se gli operatori indossano un abbigliamento con isolamento termico e resistenza all’evaporazione molto diversi da quello standard (che, ricordiamo, ha indice di isolamento termico pari a 0.6 clo e indice di permeabilità al vapore pari a 0.38).
Si illustrano di seguito due esempi di situazioni espositive analizzate secondo procedura PHS e indicazioni della norma BS 7963, al fine di verificare come le correzioni metodologiche proposte da quest’ultima possono influenzare l’esito del test.
I calcoli degli indici di stress sono stati elaborati utilizzando il tool software PHS_Modified_v2.xlsm7.
Si precisa che per i due casi seguenti si fa riferimento, in termini di indici di stress, unicamente a Tre (temperatura rettale).

Caso 1

Il primo caso è uno degli esempi pubblicati dalla stessa BS 7963 (appendice B, punto B.3). Si analizza l’esposizione di un addetto durante l’attività di pulizia di una nave nell’ambito dell’industria chimica.

Il lavoratore indossa specifico abbigliamento protettivo da agenti chimici (Icl pari a 2.00 clo, come indicato nella tabella C.2 dello standard BS 7963) e autorespiratore. L’attività di pulizia ha una durata di 40 minuti e, sotto il profilo del metabolismo, è quantificabile in 165 W/m2 (tasso metabolico moderato).

I parametri ambientali dell’ambiente indagato sono i seguenti:

  • Tdb pari a 18 °C (temperatura dell’aria di bulbo secco)
  • Tpwb pari a 13 °C (temperatura dell’aria di bulbo umido dello psicrometro)
  • Tg pari a 18 °C (temperatura di globotermometro), non essendoci carico radiante
  • Vair pari a 0.1 m/s (velocità dell’aria)

A seguito dell’attività di pulizia, si ipotizza che l’addetto si tolga i capi protettivi (Icl impostato pari a 0.80 clo) e compia attività più leggera (115 W/m2) in un altro ambiente, caratterizzato da temperatura dell’aria di 20 °C, umidità relativa pari al 50% e velocità dell’aria di 0.10 m/s.

Con tali dati, la procedura PHS restituisce i risultati riportati nella tabella 4.

Si precisa che nell’ipotesi di valutazione secondo norma 7933 (PHS) il valore dell’indice di permeabilità statica al vapore imst viene assunto pari a 0.38, come da indicazione della norma stessa (p.to D4 appendice D). Il soggetto non è acclimatato al calore.

Nelle tabelle 5 e 6 si restituiscono i risultati ottenuti avendo introdotto le correzioni proposte dallo standard BS 7963. In particolare, la differenza tra le due rielaborazioni riguarda la gestione della resistenza al vapore dei capi di abbigliamento, considerata l’impermeabilità degli indumenti indossati: in un caso si è agito sui parametri ambientali impostando il valore di umidità relativa al 100%, nell’altro invece si è adottato un livello molto basso dell’indice di permeabilità statica al vapore imst.

Si sono inoltre considerati l’impatto dei DPI sul metabolismo (+110 W/m2 sommati al metabolismo corrispondente all’attività fisica) e l’assenza degli effetti dinamici da apportare all’isolamento termico dell’abbigliamento, tenuto conto che è attillato.

In entrambi i ricalcoli le modifiche apportate alla procedura PHS conducono ad un esito diametralmente opposto rispetto a quanto emerso dall’elaborazione senza le indicazioni della norma BS 7963, facendo quindi emergere una situazione di potenziale criticità, da approfondire eventualmente con un monitoraggio dei parametri fisiologici dell’addetto.

Tabella 4: Risultati della valutazione del caso 1, secondo metodologia PHS


Tabella 5: Prima rivisitazione della valutazione del caso 1, secondo BS 7963


Tabella 6: Seconda rivisitazione della valutazione del caso 1, secondo BS 7963

Caso 2

Il caso 2 fa riferimento a delle misurazioni eseguite all’interno di un’acciaieria, in cui l’addetto alterna attività nei pressi della siviera (20 min di durata) ad altre più leggere in un ambiente meno caldo (100 min).

Il valore dell’isolamento termico dell’abbigliamento del lavoratore risulta pari a 1.82 clo, desunto dalla tabella A.6 della norma UNI 9920, a cui è stato aggiunto il contributo della maschera di protezione secondo le modalità specificate nella medesima norma (il valore Icl di tale DPI non viene analizzato nelle norme ed è stato stimato in 0.10 clo). Si precisa che tale insieme di capi di abbigliamento comprende anche un cappotto alluminizzato lungo sino al polpaccio.

L’attività lavorativa nei pressi della siviera viene assunta pari a 155 W/m2, mentre quella più leggera nell’altro ambiente pari a 115 W/m2.

I parametri ambientali rilevati nella postazione di lavoro nei pressi della siviera sono i seguenti:

  • Tdb pari a 49 °C (temperatura dell’aria di bulbo secco)
  • Tg pari a 58 °C (temperatura di globotermometro)
  • RH pari al 15% (umidità relativa dell’aria)
  • Vair pari a 0.1 m/s (velocità dell’aria)

Completata l’attività alla siviera, l’addetto si sveste del cappotto di alluminio e della maschera (Icl impostato pari a 0.75 clo) e prosegue con attività più leggera (115 W/m2) in un ambiente con temperatura dell’aria di 27 °C, temperatura di globotermometro di 27.5 °C, umidità relativa pari al 40% e velocità dell’aria di 0.20 m/s.

Con tali dati, la procedura PHS restituisce i risultati riportati nella tabella sottostante.

Si precisa che, anche in questo caso, nell’ipotesi di valutazione secondo norma 7933 (PHS) il valore dell’indice di permeabilità statica al vapore imstviene assunto pari a 0.38, come da indicazione della norma stessa (p.to D4 appendice D). Il soggetto è acclimatato al calore.

Tabella 7: Risultati della valutazione del caso 2, secondo metodologia PHS

Introducendo le correzioni dello standard BS 7963 si perviene al risultato di cui alla tabella 8.

Tabella 8: Rivisitazione del caso 2, secondo metodologia BS 7963

6 – VALUTAZIONE DELLO STRESS DA CALDO MEDIANTE MISURAZIONI FISIOLGICHE

La normazione tecnica emessa a livello internazionale fornisce anche un metodo di valutazione dello stress termico a partire dalla determinazione di alcuni parametri fisiologici dell’addetto.

In questo caso si giunge ad una valutazione riferibile solo allo specifico addetto, con l’implicazione che ne va eseguita una per ognuno dei soggetti esposti, ma con il vantaggio di ottenere un esito che tiene conto delle specificità dell’addetto stesso (stazza, età, resistenza alla fatica, …).

La norma tecnica di riferimento, in questo caso, è la UNI EN ISO 9886:2004 “Ergonomia – Valutazione degli effetti termici (thermal strain) mediante misurazioni fisiologiche”.

Figura 1. Esempi di compiti lavorativi ed abbigliamenti protettivi di addetti nel settore siderurgico

La norma illustra i metodi per la misurazione e l’interpretazione dei seguenti parametri fisiologici:

  1. temperatura del nucleo corporeo (body core temperature);
  2. temperature della cute;
  3. frequenza cardiaca;
  4. perdita di massa corporea.

Il metodo n. 1 richiede di acquisire la temperatura in distretti interni del corpo umano, ovvero: esofago, retto, addome interno (pillola radio da ingerire), bocca, timpano, condotto uditivo esterno, urine (nel mentre della minzione).

Il metodo n. 2 prevede la misura della temperatura della cute in parti differenti del corpo e con pesi diversi. Sono proposti tre diversi schemi rispettivamente con 4, 8 e 14 diversi punti di misura (vedi tabella B.1 della norma).

Il metodo n. 3 richiede la misurazione della frequenza cardiaca; per evitare gli errori più grossolani, è raccomandato di leggere le pulsazioni dal grafico di un elettrocardiogramma.

Il metodo n. 4 prevede di valutare la perdita di massa corporea dovuta alla sudorazione.

Tenuto conto del grado di invasività e delle difficoltà metrologiche di alcune di queste pratiche, si devono considerare utilizzabili solamente in un contesto di ricerca tranne quella della misurazione della frequenza cardiaca, sfruttabile anche sul campo. Questa è pertanto l’unica ad essere illustrata nel seguito.

La frequenza cardiaca HR, espressa solitamente in battiti/minuto, può essere considerata somma di diversi contributi:

HR = HR0 + ΔHRM + ΔHRS + ΔHRT + ΔHRN + ΔHRe

dove

HR0:     frequenza cardiaca media del soggetto a riposo, seduto, in condizioni di neutralità termica

ΔHRM:  incremento connesso con il lavoro muscolare dinamico

ΔHRS:   incremento connesso con il lavoro muscolare statico

ΔHRT:   incremento dovuto allo stress termico cui è sottoposto il soggetto

ΔHRN:   incremento correlato con fattori psicologici

ΔHRe:   incremento residuo correlato al ritmo della respirazione, ritmo circadiano, …

Nel contesto lavorativo la componente termica ΔHRT può essere determinata solo se è stata misurata precedentemente la frequenza cardiaca a riposo HR0 e se la prima può essere isolata dalle componenti correlate con gli sforzi muscolari statici e dinamici. Quest’ultima operazione è possibile grazie al fatto che le componenti ΔHR dovute agli sforzi muscolari si azzerano piuttosto rapidamente una volta che lo sforzo è concluso, mentre la componente dovuta all’innalzamento della temperatura del nucleo decresce molto più lentamente. Per la determinazione di ΔHRT l’attività fisica del lavoratore deve essere fermata nel momento in cui è ragionevole attendersi che sia massima la temperatura interna, per poi procedere con una lettura in continuo della frequenza cardiaca, in una condizione di riposo e termicamente non sollecitante per il lavoratore stesso. L’andamento della frequenza cardiaca HR risulterà decrescente, mostrando un cambio di pendenza dopo un determinato tempo di recupero, entro il quale si annullano i termini ΔHRM e ΔHRS. Trascurando i termini ΔHRN e ΔHRe, il termine ΔHRT connesso all’innalzamento termico del nucleo corporeo sarà quindi dato dalla:

ΔHRT = HR(trecupero) – HR0

Il tempo di recupero di HR rispetto alle componenti connesse con gli sforzi muscolari è di circa 3-4 minuti. È possibile tuttavia individuare il momento in cui si annullano le componenti ΔHR dovute agli sforzi muscolari, mediante uno studio grafico di HR in funzione del tempo, a patto di essere in grado di acquisire il valore della frequenza cardiaca HR istante per istante, con continuità, durante la fase di recupero.

6.1 – LIMITI

La norma 9886, all’appendice C, illustra i limiti applicabili per ognuno dei metodi illustrati. Viene premesso che si tratta di limiti stabiliti prendendo in considerazione i rischi per la salute a cui può andare incontro un soggetto adulto, fisicamente in forma e in buono stato di salute. Viene inoltre specificato che si tratta di limiti che sono consistenti con quelli adottati dalla norma ISO 7933 (PHS) nella quale, per la temperatura del nucleo è assunto il limite di 38 °C e per la perdita di liquidi il 5% della massa corporea (3% in caso di mancato accesso a fonti di idratazione per il lavoratore).

6.1.1 – LIMITE SULLA TEMPERATURA DEL NUCLEO tcr

Considerato che questo lavoro si appoggia anche a delle valutazioni della temperatura del nucleo (come illustrato più avanti), presentiamo anche i limiti che la norma 9886 pone per la temperatura del nucleo corporeo, tcr.

Questi sono organizzati su tre livelli differenti.

1. Il valore raggiunto per primo tra l’incremento 1 °C della temperatura interna e il valore assoluto di 38 °C, nei seguenti casi

  1. se tcr è misurata in modo intermittente, indipendentemente dalla tecnica utilizzata;
  2. se si è utilizzata la temperatura del condotto uditivo esterno o quella del timpano, a causa del fatto che non può avere garanzia del costante posizionamento corretto del trasduttore;
  3. in assenza del personale medico;
  4. quando non sono misurati altri parametri fisiologici.

Se l’accumulo di calore avviene rapidamente, in ragione di un incremento di circa 1 °C in meno di 1 ora), si applicano i medesimi limiti anche quando la temperatura del nucleo è dedotta da quella rettale o intra-addominale.

2. In altre condizioni e in particolare quando la temperatura esofagea e la frequenza cardiaca vengono monitorate continuamente, possono essere tollerati limiti più elevati, ovvero quello raggiunto prima tra l’incremento di 1.4 °C nella temperatura del nucleo e il valore assoluto di 38.5 °C

3. Infine possono essere tollerate temperature ancora più elevate, ma non superiori a 39 °C, in queste condizioni:

  1. i soggetti sono stati sottoposti a screening medico;
  2. si tratta di soggetti acclimatati al caldo a fronte di successive esposizioni in quell’ambiente e in particolare a quel compito lavorativo;
  3. è garantita una sorveglianza medica continua ed eventuali ausili di emergenza;
  4. la temperatura esofagea è monitorata continuamente;
  5. sono monitorati simultaneamente altri parametri fisiologici e, in particolare, la frequenza cardiaca;
  6. l’esposizione può essere interrotta nel momento in cui dovessero insorgere sintomi di intolleranza, come sensazioni di esaurimento, vertigini o nausea;
  7. il lavoratore è autorizzato a lasciare la situazione lavorativa a sua discrezione.

6.1.2 – LIMITE SULLA COMPONENTE TERMICA DEL BATTITO CARDIACO ΔHRT

L’incremento della frequenza cardiaca, dovuta alla sollecitazione termica dell’organismo e individuata dal termine ΔHRT, è mediamente pari a 33 battiti/min per ogni grado centigrado in più della temperatura del nucleo corporeo. Bisogna tuttavia tener conto che la reattività cardiaca agli effetti termici varia notevolmente da soggetto a soggetto e pertanto, nel caso in cui la frequenza cardiaca sia l’unico parametro monitorato, è in prima istanza ragionevole porre come valore limite per la componente ΔHRT, proprio quello di 33 battiti/min. Nei casi in cui lo stress termico sembra molto alto è tuttavia importante avere anche una stima della stessa temperatura del nucleo, tcr. e il sistema utilizzato dovrebbe consentire un monitoraggio in tempo reale della frequenza cardiaca HR nel corso dell’esposizione. Quest’ultima, sul posto di lavoro, non dovrebbe superare il limite HRL, determinato come il massimo valore riferito al singolo soggetto, ridotto di circa 20 battiti/min. Questo può essere determinato con un test individuale, oppure sulla base della seguente formula:

HRL = 185 – 0.65 x età

Si deve però tenere conto il valore individuale della massima frequenza cardiaca può variare per più di 20 battiti/min da individuo a individuo ed è pertanto consigliabile assumere quale limite per la frequenza cardiaca il valore di “sustained heart rate”:

HRL,sustained = 180 – età

Infine, in accordo con il limite massimo di 39 °C previsto per la temperatura del nucleo corporeo, il limite massimo per l’incremento della frequenza cardiaca HR da parte della componente di origine termica, può essere fissato pari a 60 battiti/min. Questo nelle medesime circostanze per le quali può essere tollerata una temperatura del nucleo superiore a 38.5 °C e in particolare se sono garantite la sorveglianza sanitaria e il monitoraggio continuo. In conclusione per la componente termica si possono individuare le due seguenti soglie o limiti:

ΔHRT,max = 33 battiti/min in qualunque circostanza

ΔHRT,max = 60 battiti/min se sono garantite le medesima condizioni previste per i casi in cui è ammesso il limite di 39 °C per tcr.

7 – DETERMINAZIONE DELLE TEMPERATURA DEL NUCLEO A PARTIRE DALLA FREQUENZA CARDIACA

Negli ultimi anni sono state numerose le ricerche di un metodo per la determinazione della temperatura del nucleo corporeo mediante pratiche non invasive. Tra queste segnaliamo il metodo elaborato da Mark J. Buller e colleghi nel 2013, i quali hanno dimostrato che la frequenza cardiaca HR può essere letta come una funzione della temperatura del nucleo tcr, distorta da rumore e filtrata con un filtro Kalman. Lo studio del 2013 è stato convalidato utilizzando i dati di dieci studi indipendenti condotti in laboratorio e in campo, nei quali sono stati presi in considerazione diverse combinazioni di carico di lavoro, condizioni ambientali, idratazione dei soggetti, acclimatazione al calore e capi di abbigliamento. In totale sono stati impiegati 100 volontari, di cui 17 per lo sviluppo del modello e 83 per la sua validazione. Il sistema restituisce risultati paragonabili a quelli della misura della temperatura esofagea e, pur non potendolo ritenere sostitutivo della misura diretta della tcr, risulta sufficientemente accurato per fornire un’indicazione operativa della sollecitazione termica del personale nei luoghi di lavoro. Lo studio aveva tuttavia evidenziato che in alcune particolari condizioni, ovvero alto carico di lavoro (> 680 W) e temperature relativamente basse (18 °C), in caso di personale dotato di abbigliamento protettivo di tipo “incapsulante” l’algoritmo pareva inadeguato per descrivere l’aumento della tcr. Con un successivo studio del 2015 è stata esaminata la performance dell’algoritmo nella stima della Tcr nel caso di personale di primo intervento, vestito con abbigliamento protettivo completamente incapsulante. L’esito è stato molto buono. Di questo secondo studio si riporta una sintesi nel seguito.

La ricerca si è articolata su tre differenti compiti lavorativi, eseguiti sul campo, in diverse condizioni ambientali e scenari di lavoro.

Figura 2. Abbigliamento protettivo indossato dai volontari durante i tre differenti test.

Durante i test condotti da Buller è stata misurata la frequenza cardiaca HR mediante un sistema di monitoraggio a fascia toracica e la temperatura tcrmediante termometri a pillola ingeribili, acquisendo un campione ogni 15 s.

Il modello si basa sulla considerazione che la frequenza cardiaca HR contiene informazioni sia sul tasso metabolico che sul flusso sanguigno inviato alla cute e pertanto HR riflette sia la produzione di calore che il trasferimento di questo verso l’ambiente. L’algoritmo si basa così sull’assunzione che il bilanciamento di questi due processi, riscontrabile in HR, dia conto dell’accumulo di calore nel corpo. Nel lavoro del 2015 gli autori forniscono anche un indirizzo Internet da utilizzare per richiedere il codice, ma è probabile che non sia più attivo. Segnaliamo però il seguente indirizzo Internet dove si trova un calcolatore online dal quale ricavare la stima temperatura del nucleo corporeo, a mezzo dell’algoritmo di Buller, fornendo i dati sulla frequenza cardiaca:

Core Body Temperature Estimation From Heart Rate – USARIEM

Per valutare la performance dell’algoritmo gli autori hanno esaminato le differenze tra le tcr misurate direttamente, mediante termometri in forma di pillola ingeribile e quelle stimate dall’algoritmo che elabora i dati di HR (tcr-est). Per il confronto hanno utilizzato un metodo statistico proposto da Bland e Altman nel 1983. Si tratta di un metodo studiato per valutare la corrispondenza tra i risultati ottenuti da due differenti procedure di misura di una stessa quantità, pensato per sostituire il test di correlazione, non perfettamente adeguato a questi scopi, anche se spesso proposto con questa finalità. Il metodo fornisce una misura utile per confrontare le probabili differenze tra i risultati ottenuti con due modelli di valutazione differenti. Si basa sull’analisi delle differenze medie tra i singoli valori determinati con i due metodi quantitativi presi in esame e restituisce quelli che vengono chiamati limits of aggreement (LoA). I LoA individuano l’intervallo all’interno del quale rientrano il 95% delle differenze. Quando uno dei due è un metodo di riferimento, questo sistema può essere utilizzato come misura dell’errore totale di una procedura di misurazione. I LoA sono definiti come [media delle differenze] ± 1.96 [dev std delle differenze].

Il LoA complessivo di tutto l’esperimento è stato pari a ± 0.48 °C.

Lo stesso metodo propone di calcolare la distorsione dello stimatore (bias) come la media delle differenze riscontrate tra tcr e tcr-est.

Il bias complessivo è risultato pari a 0.02 ± 0.25 °C.

Infine gli autori hanno anche calcolato la media quadratica delle differenze (root mean square error, RMSE) e quella complessiva è risultata pari a 0.21 ± 0.11 °C.

(Si consideri che bias a RMSE sono medie pesate sul numero di partecipati ad ogni esercizio e sulla durata degli esercizi).

Si riporta in figura 3 la tabella con il riepilogo di questi risultati dei tre test e gli esiti complessivi. Alla figura 4 sono riportati invece i grafici pubblicati dagli autori con i valori di tc (linee continue) e tcr-est (linee tratteggiate), suddivisi per sessioni calde (hot), moderate e fresche (cool) per ognuno dei tre esercizi condotti.

Gli autori giudicano consistenti i risultati ottenuti nei diversi scenari e buona la rispondenza tra i valori misurati e stimati della tcr in tutto il range esaminato (36 – 39.5 °C).

Figura 3. Tabella con i valori degli indicatori utilizzati da Buller e colleghi per determinare la rispondenza tra valori di tcr stimati con il proprio metodo e i valori di riferimento (determinati con i termometri in forma di pillole ingeribili).


Figura 4. Confronto grafico tra le temperature del nucleo misurate direttamente (linee continue) e quelle stimate in base alla frequenza cardiaca (linee tratteggiate).

Confrontando i loro risultati con la letteratura esistente Buller e colleghi fanno le seguenti considerazioni.

L’algoritmo è confermato come affidabile anche nei casi in cui gli addetti indossano abbigliamento protettivo di tipo CBRNE (Chemical Biological Radiological Nuclear and Explosive Equipment), annullando quindi i dubbi intorno all’affidabilità dello stesso, emersi con il precedente studio del 2013.

Il bias riscontrato, pari a 0.02 °C è ben compreso entro l’intervallo di ± 0.25 °C attribuito alle variazioni biologiche individuali e inferiore alla più conservativa soglia di ± 0.1 °C suggerita in altro precedente studio.

La media quadratica delle differenze (RMSE), pari a 0.21 ± 0.11 °C è inferiore a quella trovata in altri studi di comparazione tra diversi metodi di determinazione della temperatura del nucleo (rettale contro esofagea, rettale contro intraddominale, esofagea contro intraddominale) sia nel caso di scenari caldi che freddi.

Il valore di LoA complessivo, pari a ± 0.48 °C, è invece più ampio del valore di ± 0.4 °C suggerito quale soglia accettabile in letteratura, ma più stretto della media pesata di cinque altri studi, pari a ± 0.58 °C e con i quali venivano confrontati il metodo esofageo e rettale per la misura di tcr.

Le medie quadratiche delle differenze (RMSE), nel caso di questo esperimento dove gli addetti indossano abbigliamento protettivo, mostra performance dell’algoritmo simili tra loro, al variare delle condizioni ambientali o del carico di lavoro. Inoltre i valori di RMSE e LoA riferiti a questi esperimenti, risultano più contenuti di quelli riferiti ai test in cui gli addetti non indossano abbigliamento protettivo.

È inoltre evidenziato che l’algoritmo si è comportato in modo simile sia nel caso dei partecipanti che hanno raggiunto le più alte temperature corporee (39 °C), sia nel caso di quelli che non si sono riscaldati durante le attività.

Nel lavoro del 2015 gli autori conducono anche una disamina dei limiti del metodo ed evidenziano che il modello necessita di essere testato su una popolazione più ampia e più eterogenea; l’attuale è infatti stato verificato su un gruppo piuttosto omogeneo di soggetti, soprattutto in termini di età e forma fisica (si trattava di militari dell’esercito americano sottoposti ad annuali test sulla forma fisica).

Si fa notare inoltre che il modello lavora al meglio se è nota la tcr iniziale. Tuttavia potrebbero essere numerose le circostanze in cui questo dato è ignoto, ma in questi casi si può fornire al modello un’ipotesi di tcr iniziale, per esempio 37.1 °C, tenendo conto che l’incertezza sul risultato aumenta. Prove fatte in questo senso hanno restituito valori ancora accettabili dei parametri utilizzati per validare il buon comportamento del modello (RMSE pari a 0.29 ± 0.14, bias pari a -0.002 ± 0.32 e LoA pari a 0.63).

Il lavoro si conclude ribadendo che il monitoraggio individuale dello stress termico è molto importante poiché le risposte alle sollecitazioni termiche degli individui possono essere diverse, anche a parità di compito lavorativo. L’algoritmo di calcolo della temperatura interna del corpo, elaborato dagli autori, è in grado di fornire stime ragionevolmente valide della temperatura interna in diversi contesti. Inoltre l’algoritmo, se utilizzato congiuntamente a un sistema di monitoraggio della frequenza cardiaca indossato dal lavoratore, consentirebbe di rilevare lo stress termico dell’individuo in tempo reale e prevenire così eventuali malattie o incidenti dovuti all’eccesso di calore oltre a gestire al meglio i programmi di lavoro.

8 – I NOSTRI TEST

A conclusione di questo lavoro proponiamo l’esito di tre test, tra quelli da noi condotti per sperimentare l’uso delle metodiche illustrate ai titoli 6 e 7, ovvero quella della stima del fattore DHRT (come da UNI EN ISO 9886:2004) e quella della determinazione in tempo reale della tcr mediante sistema di monitoraggio di alcuni parametri fisiologici secondo il metodo di Buller.

Come indicato da Buller nella pubblicazione del 2015, esistono differenti tipi di sistemi per il monitoraggio e l’autore ne segnala alcuni tra cui i prodotti della BioHarness, Zephir Annapolis, MD, Equivital EQ-02, Hidalgo Cambridge UK.

Per tutti i nostri test è stato utilizzato un sistema di monitoraggio a fascia toracica della Zephir, con restituzione in continuo del battito cardiaco (25 registrazioni/secondo) e stima della temperatura interna del core in tempo reale; questa, come garantito dal produttore è calcolata con l’algoritmo elaborato da Buller8.

Queste prime prove sono state effettuate in ambito non lavorativo, senza pretesa di validazione dei metodi sopra esposti, con lo scopo di verificare con dati reali la congruenza tra i due differenti metodi e la praticabilità di entrambi nel contesto della valutazione del rischio occupazionale da stress termico.

Per i test uno degli autori di questo lavoro si è prestato a compiere attività fisica con diversi gradi di sforzo, all’aperto, durante la stagione estiva, nelle condizioni sotto illustrate, indossando il dispositivo di monitoraggio.

Test n. 1

Il primo test è stato effettuato per confrontare gli andamenti di HR e della tcr su un soggetto sottoposto a differenti fasi di attività più o meno intensa con fasi di riposo, per oltre 5 ore di data-logging (escursione in montagna). In questo caso l’obiettivo era semplicemente di provare la strumentazione, elaborarne gli output e costruire i grafici delle grandezze rilevanti per i ns scopi (HR e tcr).

Di seguito le fasi:

  • fase 1:
    • attività di media intensità del soggetto;
    • tcr iniziale: 37.1 °C (valore assunto come predefinito se non è noto con esattezza)
    • durata di circa 100 minuti;
  • fase 2:
    • attività di forte intensità del soggetto;
    • durata di circa 50 minuti;
  • fase 3:
    • soggetto a riposo;
    • durata di circa 40 minuti;
  • fase 4:
    • attività di media intensità del soggetto;
    • durata di circa 60 minuti;
  • fase 5:
    • attività di bassa intensità del soggetto;
    • durata di circa 50 minuti;
  • fase 6:
    • soggetto a riposo;
    • durata di circa 20 minuti.

Figura 5. Andamento della frequenza cardiaca HR (battiti/min) e della temperatura del nucleo corporeo tcr (°C) nel corso dell’intero monitoraggio (5.5 h circa)

Dal grafico pubblicato in figura 5 si riscontra l’andamento della temperatura interna calcolato dal software in tempo reale, a partire dai dati istantanei del battito cardiaco.

Test n. 2

Nel secondo test è stata simulata una condizione di lavoro con sforzi elevati in condizioni di alto carico termico ambientale (circa 30 °C e in presenza di soleggiamento).

In questa occasione l’obiettivo era di determinare il valore di ΔHRT utilizzando i dati della frequenza cardiaca misurati tramite lo strumento, e la metodologia illustrata dalla norma UNI EN ISO 9886:2004.
Di seguito le fasi:

  • fase 1:
    • soggetto a riposo, seduto, in condizioni di neutralità termica per poter determinare la HR0;
    • durata di circa 3 minuti;
  • fase 2:
    • soggetto in intensa attività fisica sulla cyclette con esposizione diretta al sole;
    • temperatura ambientale esterna: 29.5 °C (simulazione di condizioni lavorative in ambiente caldo);
    • vestiario soggetto: pantalone lungo e giacca protettiva coprente e non traspirante (simulazione abbigliamento protettivo incapsulante);
    • HR media durante attività fisica: 145 battiti/minuto;
    • durata di circa 24 minuti;
  • fase 3:
    • soggetto fermo, in condizioni di neutralità termica, per poter individuare le differenti componenti di incremento del battito cardiaco, rispetto alla frequenza a riposo.

Figura 6. Andamento della sola frequenza cardiaca per tutta la durata del test (55 min.)

Il grafico in figura 6 mostra l’andamento della frequenza cardiaca istantanea calcolata durante le tre fasi del test.

Dalla fase 1 del test si è calcolata la HR0 media, pari a 63 battiti/minuto.

Nel primo intervallo della fase 3 (fase di riposo), la tendenza dell’andamento di HR è fortemente decrescente poiché si tratta dei primi istanti dopo l’arresto dell’attività fisica.

Nel secondo intervallo della fase 3 l’andamento di HR risulta sempre decrescente ma con una pendenza inferiore.

Il punto di variazione della pendenza della curva HR, durante la fase 3, ci consente di determinare la separazione tra i due intervalli precedentemente illustrati determinando, non senza difficoltà, il momento in cui termina il contributo muscolare all’incremento della frequenza cardiaca ed è possibile isolare l’incremento dovuto allo stress termico cui è sottoposto il soggetto (ΔHRT).

Come illustrato nel grafico, dopo circa 3.3 minuti dall’inizio della fase 3, si rileva un HR pari a 93 battiti/minuto. Questo valore di HR è determinato principalmente dal contributo cardiaco a riposo e dall’incremento dovuto allo stress termico:

ΔHRT = HR(trecupero) – HR0

Si determina in tal modo un valore di ΔHRT pari a 30 battiti/minuto, di poco inferiore al limite applicabile in questa circostanza di 33 battiti/minuto (la soglia di 60 battiti/minuto è di fatto mai applicabile).

Come definito dalla stessa 9886, l’incremento della frequenza cardiaca dovuto allo stress termico è mediamente pari a 33 battiti/minuto per ogni grado centigrado in più della temperatura del nucleo corporeo e pertanto si può stimare che nel caso di questo test la temperatura del nucleo si sia alzata di 1 °C , o poco meno, rispetto al dato di partenza.

Test n. 3

Il terzo test è stato effettuato per confrontare il dato istantaneo di tcr, misurato con la fascia toracica, elaborato a partire dalla frequenza cardiaca con l’algoritmo di Buller, con quello calcolato tramite il metodo n. 3 della norma UNI EN ISO 9886:2004.
Il test consiste in tre fasi distinte e consecutive:

  • fase 1:
    • soggetto a riposo, seduto, in condizioni di neutralità termica per poter determinare la HR0;
    • tcr iniziale dello strumento: 37.1 °C (valore assunto come predefinito se non è noto con esattezza)
    • durata di circa 8 minuti;
  • fase 2:
    • intensa attività fisica del soggetto sulla cyclette con esposizione diretta al sole;
    • temperatura ambientale esterna: 28.0 °C (simulazione di condizioni lavorative in ambiente caldo);
    • vestiario soggetto: pantalone lungo e giacca protettiva coprente e non traspirante (simulazione abbigliamento protettivo incapsulante);
    • HR media durante attività fisica: 150 battiti/minuto;
    • durata di circa 23 minuti;
  • fase 3:
    • soggetto a riposo prolungato, in condizioni di neutralità termica, per poter individuare le differenti componenti di incremento del battito cardiaco.

Figura 7. Andamento della frequenza cardiaca HR (battiti/min) e della temperatura del nucleo corporeo tcr (°C) nel corso dell’intero monitoraggio (65 min circa)

Il grafico in figura 7 mostra l’andamento della frequenza cardiaca istantanea calcolata durante le tre fasi del test e la concomitante tendenza della temperatura di core, stimata dallo strumento.

Dalla fase 1 del test si calcola la HR0 media, pari a 63 battiti/minuto.

Come illustrato per il test 2, si determina il punto in cui la curva HR varia di pendenza, corrispondente ad un valore di HR pari a 94 battiti/minuto, dopo circa 3.6 minuti dall’inizio della fase 3 (fase di riposo).

Il valore di ΔHRT determinato secondo il metodo della norma UNI EN ISO 9886:2004, è pari quindi a 31 battiti/minuto a cui corrisponderebbe un potenziale innalzamento della temperatura interna del corpo di circa 1 °C, confrontabile con l’innalzamento stimato dallo strumento di 1.1 °C (da 37.2 °C durante la fase 1 a riposo a 38.3 °C all’inizio della fase 3).

I due valori di innalzamento termico, quello determinato secondo il metodo della norma UNI EN ISO 9886:2004 e quello stimato dallo strumento secondo l’algoritmo di Buller, sono in questo caso comparabili tra di loro. Tale confronto non è sempre facilmente attuabile per il fatto che, in talune situazioni, risulta difficile individuare con precisione il cambio di pendenza sulla curva HR durante la fase finale di recupero.

9 – CONCLUSIONI

Con questo lavoro abbiamo voluto dedicare un approfondimento alle situazioni occupazionali di stress termico da caldo, in quei contesti in cui la protezione dei lavoratori da alcuni rischi, richiede di indossare un abbigliamento speciale. A questo scopo abbiamo esaminato quali criteri valutativi si possono adottare, considerato che è escluso di poter ricorrere alle due metodiche esistenti a livello internazionale e maggiormente condivise, ovvero quella basata sull’indice WBGT (normata dalla UNI EN ISO 7243:2017) e quella basata sulla sollecitazione termica prevedibile, metodo PHS (normata dalla UNI EN ISO 7933:2005). I criteri che è possibile adottare per questi casi risultano i seguenti tre:

  1. valutare l’esposizione mediante i metodi WBGT o PHS, così come modificati dallo standard britannico BS 7963:2000;
  2. esaminare l’esposizione mediante la misurazione di parametri fisiologici (di fatto la frequenza cardiaca) secondo la norma UNI EN ISO 9886:2004;
  3. stimare la temperatura interna (tcr) mediante un algoritmo proprietario, attualmente testato per gruppi speciali di lavoratori (militari) in condizioni di stress termico molto eterogenee e oggi disponibile in alcuni dispositivi commerciali per il monitoraggio dei parametri fisici e fisiologici personali.

Abbiamo innanzitutto illustrato quali sono le implicazioni di un abbigliamento protettivo sui meccanismi di termoregolazione, evidenziando che l’impatto di questo vestiario sull’accumulo di calore della persona, può essere di grande entità.

La disamina del metodo proposto dallo standard inglese, considerati anche gli esempi portati, conferma quale grave sottostima si può compiere nel trascurare il reale abbigliamento del lavoratore quando differisce da quello più leggero preso in considerazione dai due metodi consolidati (paradossalmente questa lacuna è più grande nel caso del PHS, metodo più sofisticato dei due). Abbiamo mostrato come una situazione valutata entro i gradi di libertà concessi dalla UNI EN ISO 7933 (PHS), rivalutata con i criteri della BS 7963, possa restituire esiti opposti, passando da un livello di rischio trascurabile ad uno elevato.

In merito ai due metodi basati sulla misurazione della frequenza cardiaca, ne è stata valutata la praticabilità. Il primo, basato sullo standard 9886, presenta due limiti: l’impossibilità di restituire i risultati in tempo reale e la difficoltà a intercettare il cambio pendenza nel trend di rilassamento di HR, fondamentale per quantificare la grandezza di riferimento ΔHRT. Quindi, oltre al fatto di essere affetto da una notevole incertezza, risulta poco pratico da utilizzare, considerato che per ogni esposizione al calore, temuta come pericolosa, si deve prevedere l’interruzione dal lavoro e una misurazione della frequenza cardiaca per diversi minuti (almeno 15) per studiarne l’andamento nel tempo.

L’alternativa ricavata dagli studi di Buller risulta senz’altro la più interessante: ha il grosso vantaggio di restituire il profilo stimato della temperatura del nucleo per tutta la durata dell’esposizione e, se il dispositivo adottato dispone di un collegamento radio con un ricevitore, consente di acquisirla e visualizzarla in tempo reale. Di questa metodologia si ricorda che è ai suoi albori e che gli stessi autori ne raccomandano una sperimentazione su una popolazione più eterogenea di quella presa in considerazione da loro. Tuttavia, in attesa che gli enti di ricerca compiano questi passi (se lo vorranno) e gli istituti di standardizzazione ne valutino magari anche l’inclusione in una norma tecnica, al giorno d’oggi si presenta già come preziosa per esaminare i casi maggiormente critici di esposizione allo stress termico da caldo. Tra questi, nel caso dei first-responders (addetti al pronto intervento), tra cui esercito, forze dell’ordine, vigili del fuoco e sanitari, se ne ritiene l’adozione fortemente raccomandabile per prevenire le più gravi patologie, se non il decesso per cause da stress termico.

10 – BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

  • J Buller et al. (2013) Estimation of human core temperature from sequential heart rate observations, Physiological Measurement, 34, 781-798
  • J. Buller et al. (2015) Real-time core body temperature estimation from heart rate for first responders wearing different levels of personal protective equipment, Ergonomics, 58:11, 1830-1841
  • Havenith, D. Fiala (2016) Thermal Indices and Thermophysiological Modeling for Heat Stress, American Physiological Society. Compr Physiol 6:255-302, 2016
  • Malchaire et al. (2001) Development and Validation of the Predicted Heat Strain Model, Ann. occup. Hyg., Vol. 45, No. 2, pp. 123–135
  • Parsons, D. Bethea (2002) The development of a practical heat stress assessment methodology for use in UK industry, Health and Safety Executive (UK), Research Report 008
  • Parsons (2014) Human Thermal environments: the effects of hot, moderate and cold environments on human health, comfort and performance. Terza edizione. Boca Raton, FL. CRC Press
  • BS 7963:2000 Guide to the assessment of heat strain in workers wearing personal protective equipment
  • NIOSH (1986), Occupational exposure to hot environments, National Institute for Occupational Safety and Health, DHHS (NIOSH) Publication No 86-113, Washington DC, USA
  • UNI EN 12515:1999 Ambienti caldi – Determinazione analitica ed interpretazione dello stress termico mediante calcolo della sudorazione richiesta
  • UNI EN ISO 7726:2002 Ergonomia degli ambienti termici: Strumenti per la misurazione delle grandezze fisiche
  • UNI EN ISO 13731:2004 Ergonomia degli ambienti termici – Vocabolario e simboli
  • UNI EN ISO 9886:2004 Ergonomia – Valutazione degli effetti termici (thermal strain) mediante misurazioni fisiologiche
  • UNI EN ISO 7933:2005 Ergonomia dell’ambiente termico – Determinazione analitica ed interpretazione dello stress termico da calore mediante il calcolo della sollecitazione termica prevedibile
  • UNI EN ISO 8996:2005 Ergonomia dell’ambiente termico – Determinazione del metabolismo energetico
  • UNI EN ISO 9920:2009 Ergonomia dell’ambiente termico – Valutazione dell’isolamento termico e della resistenza evaporativa dell’abbigliamento
  • UNI EN ISO 7243:2017 Ergonomia degli ambienti termici – Valutazione dello stress da calore utilizzando l’indice WBGT (temperatura globo del bulbo bagnato)
  • Francia, oltre 10 mila morti per il caldo, Corriere della sera, 20 agosto 2003
  • Core Body Temperature Estimation From Heart Rate,US Army Research Institute of Environmental Medicine (USARIEM), 13 June 2014
  • University of South Florida, College of Public Health, Tampa FL, Department of Environmental and Occupational Health, Professor Thomas E. Bernard
  • PPE, Heat Stress, and Cardiac Strain: a Study, Fire Engineering Magazine, 30 dicembre 2015

1 Per un atleta che indossa un normale kit da corridore un indice di WBGT pari a 28 °C rappresenta un rischio molto alto, compreso tra 23 °C e 28 °C un rischio alto, compreso tra 18 °C e 23 °C moderato e inferiore a 18 °C basso.
2 ta: temperatura dell’aria (°C); va: velocità dell’aria (m/s); UR: umidità dell’aria (%); tg: temperatura di globotermometro (°C); Icl: isolamento termico dell’abbigliamento (clo); M: metabolismo (met)
3 UNI EN 12515:1999 “Ambienti caldi – Determinazione analitica ed interpretazione dello stress termico mediante calcolo della sudorazione richiesta”
4 Per la precisione i metodi esistenti cui si fa riferimento sono:

    • EN 12515:1997, recepita in Italia con la UNI EN 12515:1999 “Ambienti caldi – Determinazione analitica ed interpretazione dello stress termico mediante calcolo della sudorazione richiesta”, sostituita nel 2005 dalla UNI EN ISO 7933:2005 “Ergonomia dell’ambiente termico – Determinazione analitica ed interpretazione dello stress termico da calore mediante il calcolo della sollecitazione termica prevedibile
    • EN 27243:1993, recepita in Italia con la UNI EN 27243:1996 “Ambienti caldi. Valutazione dello stress termico per l’uomo negli ambienti di lavoro, basata sull’indice WBGT (temperatura a bulbo umido e del globotermometro)”, sostituita nel 1997 dalla UNI EN ISO 7243:2017 “Ergonomia degli ambienti termici – Valutazione dello stress da calore utilizzando l’indice WBGT (temperatura globo del bulbo bagnato)”

Ad ogni modo le correzioni proposte dalla BS 7963 si applicano quasi identicamente anche alle più recenti revisioni delle norme citate nello standard UK e nel seguito di questo lavoro è illustrato come fare.
5 Con abbigliamento da lavoro standard si intende un insieme di capi leggeri, in termini di isolamento termico, e permeabili all’aria e al vapore: indice di isolamento termico (Icl) pari a 0.6 e indice di permeabilità (im) pari a 0.38 (cfr UNI EN ISO 7243:2017).
6 Si veda in proposito UNI EN ISO 7726:1998, appendice D. Pas, pressione di vapor saturo, è calcolabile per via approssimata come 0.611×exp(17.27×ta / (ta + 237.3))
7 Tool liberamente scaricabile dalla pagina Internet di uno degli autori, Thomas E. Bernard, University of South Florida, College of Public Health, Tampa FL.
8 Dell’uso dell’algoritmo di Buller il produttore dà garanzia pur non dichiarandolo nei data-sheet. Gli scriventi lo hanno verificato a mezzo del calcolatore online.

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A. Merlino, G. Gambino, D. Meda, G. Quadrio (2018) Valutazione dello stress termico per lavoratori sottoposti ad alti carichi, in regime di non applicabilità delle metodiche WBGT e PHS, atti del convegno nazionale dBA 2018 (Bologna, 17 ottobre 2018)

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