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Gli effetti dell’abbigliamento protettivo (dpi) sullo stress termico

pubblicato il: 15 marzo 2019
ultima revisione: 13 aprile 2020

Abstract

Anche se i DPI dovrebbero essere considerati l’ultima risorsa nell’attuazione delle misure di riduzione dei rischi, sono spesso utilizzati come prima in quanto risultano più economici rispetto all’introduzione di misure tecniche da attuarsi sulla sorgente e/o sull’ambiente di lavoro. Ciò è dovuto anche al fatto che si tende a considerare che le prestazioni dei lavoratori siano poco influenzate da un condizioni di lavoro sfavorevoli.

In questo breve articolo ci occupiamo dell’impatto che l’abbigliamento e sopratutto quello speciale con funzioni protettive, può avere sullo stress termico – e in particolare sullo stress termico da caldo a cui è soggetto il lavoratore che lo deve indossare.

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I meccanismi di interazione tra abbigliamento protettivo e meccanismi di termoregolazione umana

È facile intuire quale importante impatto abbia l’abbigliamento protettivo sulla capacità del corpo di disperdere calore.

L’inibizione dell’evaporazione dalla pelle è il primo effetto dell’indossare abbigliamento da lavoro di tipo protettivo e questo a causa di un microclima umido che si crea tra pelle ed abbigliamento, con la conseguenza di diminuire la capacità termoregolatoria di questo topo di meccanismo.

Inoltre l’abbigliamento protettivo incide sulla capacità del sistema di termoregolazione di trasferire calore dal nucleo corporeo alla cute: questo trasferimento, attuato dalla circolazione sanguigna, è infatti influenzato dalla differenza di temperatura esistente tra cute e nucleo e se le due convergono, come può avvenire se il lavoratore indossa un abbigliamento protettivo, la quantità di calore trasferibile alla pelle diminuisce. Questo comporta un isolamento termico del soggetto, con conseguente aumento della temperatura del nucleo (affinché il sangue possa cedere calore alla cute, questa dev’essere mantenuta almeno 1 °C più in basso della temperatura del nucleo).

Si ha inoltre la conseguenza che al cuore è imposta una più alta frequenza cardiaca, nel tentativo di mantenere inalterata la gittata, mentre il volume di sangue pompato diminuisce ad ogni battito. Al raggiungimento della medesima temperatura da parte di nucleo e pelle, diventa molto probabile il collasso cardiaco e questo si può quindi verificare anche per temperature non altissime (inferiori a 39°C ad esempio). Di qui l’importanza di considerare correttamente gli effetti dell’abbigliamento protettivo nelle valutazioni di stress termico.

L’abbigliamento protettivo, così come eventuali altri DPI (respiratori ad esempio), incide anche sul tasso metabolico, innalzandolo con conseguente aumento del calore interno correlato al metabolismo.

Un elenco degli effetti dei DPI, indossati a protezione dagli agenti fisici, chimici, biologici e termici, sul bilancio termico umano è il seguente:

  • il tasso metabolico può subire un aumento a causa del peso dei DPI o a causa delle limitazioni al movimento imposte al lavoratore da questi stessi dispositivi;
  • gli scambi termici che avvengono con la respirazione per convezione ed evaporazione possono essere influenzati da dispositivi a protezione della respirazione come maschere filtranti o apparati di respirazione;
  • gli scambi termici che avvengono per convezione attraverso la cute sono influenzati dalla porzione di corpo coperta e dal grado di isolamento termico fornito dall’abbigliamento;
  • gli scambi termici che avvengono sempre dalla cute, ma per evaporazione, sono influenzati dai medesimi fattori di cui al punto sopra ed anche dalla permeabilità al vapore degli indumenti. A proposito di questo punto si tenga conto che l’evaporazione del sudore dalla cute è generalmente il più efficace metodo di raffreddamento del corpo.
  • Infine i DPI possono incidere sulle quantità di calore scambiate attraverso la cute per conduzione e irraggiamento.

Tra questi effetti, quelli che maggiormente incidono sullo stress termico sono quello dell’aumento del tasso metabolico e quello della diminuzione del tasso di evaporazione del sudore. Gli altri si possono considerare secondari rispetto a questi due.

Rimaniamo intorno agli effetti dell’abbigliamento sugli scambi di calore tra soggetto e ambiente. Si consideri che queste sono riconducibili a due meccanismi, l’isolamento termico e la resistenza all’evaporazione.

L’isolamento termico dell’abbigliamento, individuato dal parametro Icl, misurato in clo, influenza gli scambi termici che avvengono attraverso la pelle, di tipo non evaporativo, ovvero quelli convettivi, radiativi e conduttivi. Com’è noto, l’isolamento termico complessivo dei capi di abbigliamento indossati dal lavoratore, si può determinare a mezzo dei dati e delle procedure reperibili nella norma tecnica UNI EN ISO 9920:2009 “Ergonomia dell’ambiente termico – Valutazione dell’isolamento termico e della resistenza evaporativa dell’abbigliamento”.

Tuttavia l’abbigliamento incide sugli scambi termici anche attraverso la propria resistenza all’evaporazione. Quando questa è elevata (come nel caso di indumenti impermeabili) accade che l’evaporazione del sudore può avvenire solo nell’aria compresa tra la superficie della pelle e la superficie interna dello strato dell’abbigliamento a più alta resistenza all’evaporazione. Quando il soggetto inizia a sudare, quest’aria si satura di vapore acqueo e l’unico modo di disperdere calore rimane quello per convezione e irraggiamento dalla superficie esterna dell’abbigliamento; la quota di calore così dispersa, è tuttavia di molto inferiore a quella che sarebbe stata ceduta attraverso l’evaporazione del sudore all’esterno.

Un altro fattore che incide in modo importante sugli scambi termici, è il grado di aderenza dell’abbigliamento stesso al corpo. Quando gli indumenti non sono fascianti, l’aria può transitare dall’esterno al loro interno e viceversa, pompata dentro e fuori dagli stessi movimenti del soggetto (si parla di “pumping effect”). La capacità di raffrescamento riconducibile a questo meccanismo varia notevolmente e dipende dalla quantità di aria scambiata e dalle temperature del microclima interno all’abbigliamento e del microclima esterno. Tranne che nel caso dei metabolismi più leggeri (inferiori a 100 Wm-2) il “pumping effect” può incidere sull’isolamento termico dell’abbigliamento riducendolo di circa il 20% rispetto al suo valore statico (nominale). Di questo è pertanto necessario tenere conto nei casi in cui l’addetto indossi un abbigliamento avvolgente, se non incapsulante o anche solo quando indossi dei DPI che lo comprimono (imbracature, ginocchiere, …).

Conclusioni

Sono numerosi gli effetti di interferenza tra l’abbigliamento da lavoro protettivo e i meccanismi di termoregolazione umana.
Insieme al metabolismo, questo elemento costituisce un importante fattore nella valutazione del rischio microclima nei casi di stress termico da caldo, mentre invece si tende ad attribuire importanza solo alle temperature ambientali.
Con questo articolo abbiamo illustrato da dove nascono i pericoli derivanti dall’uso di questo tipi di DPI, con lo scopo di invitare e tenerli in debita considerazioni nell’approcciare la valutazione di questo agente di rischio.

È disponibile, in questa stessa sezione, il seguente articolo che illustra come condurre correttamente questa valutazione: Valutazione dello stress termico per lavoratori che indossano abbigliamento protettivo.

Bibliografia

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